Nobody covers Dylan like Dylan
Cat Power, Bob Dylan, rispetto e rivoluzione
«Nobody sings Dylan like Dylan». Nessuno canta le canzoni di Dylan (bene) come Dylan. Chiunque frequenti con una certa assiduità la musica del cantautore più influente di tutti i tempi, magari leggendo ogni tanto qualcosa sul suo lavoro, conosce questo tormentone, questa legge aurea: le migliori versioni delle sue canzoni le ha cantate lui. Gli altri ci provano, tirano fuori ottime performance, ma sempre un po’ sotto a quelle del titolare della ditta. Che si debba per forza dar ragione a questa sentenza o meno (ci sono vari indizi che fanno pensare a diverse eccezioni, la più nota è “All Along the Watchtower” di Jimi Hendrix), c’è un altro modo di guardare la faccenda, una prospettiva che spinge a riformulare quella frase: nobody sings Dylan’s covers like Dylan, cioè nessuno canta cover di Bob Dylan come fa lui. Anche qui il giudizio qualitativo naturalmente può essere opinabile, ma non è questo il punto. Il dato di fatto è che, dal 1963 a oggi, nessuno ha smontato, rimontato, riverniciato, demolito e ristrutturato le sue canzoni come ha fatto lui. Sia pensando alla quantità di volte in cui questo è avvenuto, sia pensando alla spregiudicatezza con cui questa opera di rimodellamento è stata portata avanti. Se fare una cover vuol dire riplasmare una canzone, il campione è indiscutibilmente lui, anche (e soprattutto, direi) con le sue.
Mi è venuto in mente giorni fa parlando del nuovo album di Cat Power, la testimonianza di un recente concerto alla Royal Albert Hall di Londra, in cui la cantautrice americana ripropone la stessa scaletta che Dylan cantò a Manchester (ma il bootleg diventò famoso come “Royal Albert Hall”) nel 1966. Stesse canzoni, una per una, stesso ordine, stesso set di strumenti: prima parte acustica con la chitarra folk, seconda elettrica con la band.
Un amico mi ha detto che il disco di Cat Power lo convince fino a un certo punto, perché le versioni rispettano troppo quelle originali. Ci ho pensato, e gli ho risposto in due modi. Il primo è che secondo me la bravura di Cat Power nell’eseguire le cover, che sono una parte ormai abbastanza corposa della sua carriera, sta proprio nel non stravolgerle a livello di struttura e allo stesso tempo di farle proprie con il suo modo rilassato di cantare e suonare, abbastanza unico anche grazie alla voce. La seconda risposta è che, parlando di Dylan, qualunque sforzo di stravolgere una sua canzone rimarrà comunque un passo indietro rispetto a quanto abbia fatto lui negli ultimi sessant’anni.
Ad aiutarmi in questo ragionamento è arrivato puntuale il nuovo ritaglio dall’album dei ricordi di Dylan, dedicato al live at Budokan del 1978 e uscito una settimana dopo il tributo di Cat Power. Sono entrambi doppi album (ma del Bodokan c’è anche il cofanetto completo con 4 cd), c’è un sacco di materiale da cui pescare, e trovo estremamente interessante mettere uno dopo l’altro sul piatto questi due dischi.
Di quello di Chan Marshall, per usare il nome e cognome, qualcosa ho già detto. È un lavoro che ho adorato fin dai primi ascolti, registrato da un’artista che conosce e ama Dylan come pochi altri e poche altre, tanto che in qualche modo più che un’ispirazione per lei si tratta di un’ossessione. L’avevo sentita già varie volte eseguire pezzi di Dylan, quindi non avevo dubbi che il taglio del concerto e dell’album sarebbe stato improntato al rispetto e non alla rivoluzione. La bellezza si sprigiona fin dalle prime note: la chitarra e la voce rendono un servizio straordinario alla musica e alle parole. Non serve molto di più. Non c’è niente, in un certo senso, che non ci sia nel live di Dylan, solo qua e là qualche libertà nel cantato, ma a livello si sfumatura, e non sempre. Eppure sembrano allo stesso tempo canzoni appena scritte, la colonna sonora della nostra vita, e una meravigliosa litania cantata da qualcuno che ci vuole bene. Tutto con estrema grazia, in punta di piedi, composta e misurata, con una forza che viene tutta dall’amore e dal talento.
Ecco, ora prendiamo il disco di Dylan: è esattamente il contrario. Lo ascolto e il risultato è un po’ come se a un meeting musicale gli strumentisti di band di generi diversi dopo una bevuta collettiva si fossero collegati all’impianto audio e avessero deciso di suonare insieme una manciata (abbondantissima nella versione da 4 cd) di canzoni. Se c’è qualcosa che manca a questo album è proprio il rispetto, non c’è quasi traccia di compostezza, e la grazia trova strade tutte sue per fare capolino. Il suono è sovraccarico, ridondante, qua e là stupendamente (in certi punti anche meno stupendamente) pacchiano e barocco, smodatamente pieno. Si passa dai cori gospel di “I Threw It All Away”, al soul pompante di “Maggie’s Farm” e “Oh, Sister”, agli assolo di chitarra hard blues piazzati qua e là, fino al folle reggae di “Don’t Think Twice, It’s All Right” e “Knockin’ on Heaven’s Door”. “The Man in Me” la canta un po' con il piglio da crooner a cui ci abituerà decenni dopo. Oltre agli strumenti classici dell’armeria di casa Dylan c’è il sax, in alcuni momenti al limite dell’invadenza come in “Ballad of a thin man”, una sezione fiati robusta, le percussioni afro, il flauto.
Pochi brani rispettano un minimo le linee guida della versione originale, altri deragliano allegramente ed efficacemente, altri divelgono i binari e li spostano su una traiettoria completamente nuova. Ma qui sta il punto, secondo me: se si parla di Dylan, gli originali non esistono. Le canzoni cambiano quasi a ogni esecuzione, e ci sono i cofanetti che testimoniano le session di registrazione dei vari dischi a dimostrarlo. Al di là del caso di scuola di “Tangled Up in Blue”, probabilmente la canzone che Dylan si è divertito a uccidere e far rinascere più volte sotto forme sempre più diverse, anche “Like a Rolling Stone”, nelle session di “Highway 61 Revisited” contenute nel box “The Cutting Edge”, è sviscerata in una serie di versioni che davvero la riscrivono ogni volta. Ma potremmo citarne decine, centinaia forse. Questo può servire anche come libretto di istruzioni per chi , in futuro, si avvicinasse a un concerto di Bob Dylan aspettandosi di riconoscere qualcosa di molto simile a quanto ha ascoltato sui dischi. Non funziona così, ragazzi, se vi lamentate il problema è l’incauto acquisto del biglietto. Le canzoni di Dylan non sono contenute nei solchi degli Lp che abbiamo a casa, sono spalmate su sei decenni di carriera, stavano cambiando già mentre le suonava la seconda volta, e non hanno mai smesso.
Nonostante “Budokan” non sia il mio live preferito di questo gigante, è fuori di dubbio che ascoltarlo in questa versione estesa, anche nei pezzi che mi convincono meno è un esercizio intrigante, perché ci dà ancora una volta la misura enorme del coraggio e della ricerca perenne con cui questo artista ha camminato lungo tutta la sua carriera, lasciando alcune delle impronte più profonde che siano mai uscite dall’unione di suoni e parole che chiamiamo canzoni. Ecco perché Cat Power fa benissimo ad appoggiare delicatamente i piedi negli stessi segni, senza la pretesa di inventarsi un percorso diverso, che probabilmente ha già tracciato lui.